Perché si canta?

Quando la musica diventa pensiero

 

di Francesco Filidei

 

Il seguente saggio è pubblicato integralmente da Calibano #8 – lohengrin / l’invenzione del medioevo

 

Forse il primo vero problema che deve affrontare chi si accinga a scrivere un’opera lirica è il motivo per il quale i suoi protagonisti debbano cantare, per giunta con una voce impostata che rischia di suonare inevitabilmente datata dopo che microfoni e altoparlanti hanno invaso le nostre vite. 

Perché si canta? In linea di massima lo si fa quando la pressione dei sentimenti è tanta e tale che le parole da sole non bastano. Il problema è che, per portare avanti una storia, ci sono azioni da compiere e relazioni da imbastire che avrebbe più senso recitare (ah, i buoni vecchi recitativi!) e non c’è niente di peggio di voler fare musica quando non ce n’è bisogno. 

Se dunque si è costretti a momenti nei quali il sentimento deve lasciare spazio al dipanarsi della trama, la cosa migliore è individuare un’ambientazione che permetta al canto di integrarsi il più possibile al contesto, e in questo senso il Medioevo risulta essere un territorio privilegiato, capace di abbracciare l’elemento fiabesco e quello del sacro liberando il canto lirico dalle contingenze del presente. Non è quindi un caso che mi sia capitato di affrontare numerose volte argomenti medievaleggianti e che abbia nei prossimi anni altri importanti impegni su questo tipo di soggetto.

 

Il primo lavoro di un certo rilievo che ho scritto intorno a un Medioevo immaginario è stato The Red Death, una sorta di Oratorio/Passione di una novantina di minuti per coro solisti orchestra ed elettronica su testo di Hannah Dübgen basato sulla Maschera della Morte Rossa di Edgar Allan Poe. Per l’occasione mi ero divertito a far tradurre un libretto che Franz Schreker aveva approntato per Alexander Zemlinsky, nel quale la Morte Rossa veniva dallo stesso vituperio delle genti nel quale anch’io nacqui (sì, sono pisano). Il racconto ambientato in un’abbazia presentava sette stanze (barbabluesche) di colore diverso e dodici rintocchi di pendola, sui quali avevo costruito rispettivamente le strutture armoniche e quelle temporali, immaginando che ogni porta si aprisse su uno dei sette peccati capitali dipinto su una vetrata come a descrivere un tormentato purgatorio dantesco, accompagnato da suoni di campana fino allo scoppiare della peste. 

In seguito ho scritto il Cantico delle Creature di San Francesco per soprano e orchestra, che già nel testo presentava una struttura in tredici sezioni alle quali non mi è rimasto che associare le dodici note (chiudendo il ciclo con il ritorno sulla prima), e soprattutto Il nome della rosa, con Stefano Busellato, Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti, un’opera che mi ha impegnato per ben quattro anni, anch’essa incardinata su un principio strutturale analogo a quello che ha informato gli altri lavori. Le sette giornate del libro sono divise in due atti: il primo si apre a ventaglio partendo dal do e chiudendo in fa diesis con prologo e dodici scene, il secondo si chiude specularmente a ventaglio partendo da diesis e arrivando a do con dodici scene e un epilogo. In effetti, un altro lascito del pensiero medievale che ho portato avanti in queste opere è stata la sistematizzazione degli elementi e delle strutture in modo quasi teleologico, ricalcando i principi di catalogazione e le summae tanto care a Umberto Eco. L’autore si era fatto un nome col principio di ‘opera aperta’ ma ne Il nome della rosa ha saputo mostrare la forza di una forma geometricamente cristallina, che potrebbe essere interpretata in molteplici ma non infiniti modi, dal giallo al romanzo di formazione, dal feuilleton al trattato di semiotica, fino a fare il verso a una forma di concerto con cadenza (il sogno di Adso, strategicamente posizionato verso la sezione aurea) e il melodramma buffo (Eco dixit, nelle Postille al Nome della rosa) con lunghi recitativi e ampie arie, scusa perfetta per ricreare forme chiuse: Adso e Guglielmo (il Virgilio di turno) nella loro indagine, sembrano quasi schiacciare un bottone sui Monaci interrogati, che cantano le loro arie, raccontando le loro storie, con la loro attitudine, il loro modo di essere. Un’altra definizione data da Umberto Eco ai suoi romanzi evidenziava la loro relazione con le sinfonie mahleriane, per mezzo dei lunghissimi collage di citazioni più o meno nascoste (in questo senso non si può non ricordare la sua amicizia con Berio e il Terzo Movimento della sua Sinfonia, gravitante intorno allo Scherzo della Seconda di Mahler). A questo punto mi son detto che, se fossi riuscito a incastrare sotto a una struttura portante di tipo sinfonico un’ossatura composta da arie e recitativi, avrei già compiuto un bel passo avanti nel lavoro sul Nome della rosa (ed esempi analoghi storicamente non mancherebbero, come dimostra lo studio effettuato da Réné Leibowitz sul primo atto della Manon Lescaut di Puccini). 

Ulteriore elemento di derivazione medievale nelle opere che ho citato è stata l’iconizzazione delle parole: ispirandomi ai libri miniati dai monaci, avevo madrigalizzato tutto il possibile, dai maiali ai polli, dai cavalli agli asini, ma anche dai concetti ai numeri, dai pesi alle misure e perfino il timpano della chiesa, che con le sue storie scolpite a monito di un popolo analfabeta aveva preso voce invece che luce. 

 

L’elemento decisivo però, per la composizione, è stato il canto gregoriano, un canto che il suo millennio di Storia ha reso atemporale: le novità si rincorrono, nella moda come nella musica, eppure il gregoriano rimane sempre lì (a dimostrarlo, ad esempio, Duruflé alla fine degli anni Quaranta con il suo magnifico Requiem). Nel Nome della rosa c’erano tanti elementi su cui lavorare per cercare di ricreare il mondo sottinteso nel libro sotto forma di opera lirica, a partire dalla convinzione che, al suo interno, questa dimensione operistica ci fosse già, come ci fossero tutti i topoi propri delle opere ottocentesche, vissuti in modo diverso, certo, ma forti e presenti. La potenza del Nome della rosa, infatti, è chiaramente a monte della sua scrittura: è nella concezione di un mondo potente grazie anche alla sua ambientazione, criticatissima dai puristi, ma indispensabile per la sua vita in quanto opera d’arte. Per questo il romanzo ha avuto nel tempo adattamenti cinematografici, fumettistici e teatrali che ne hanno saputo esaltare soprattutto i luoghi. Anche l’opera lirica, pur essendo forse inadatta a rendere la componente giallistica della storia (io stesso, nel Caso Makropulos, faccio ancora fatica a seguire la trama), possiede tuttavia uno strumento prezioso per rappresentarne la complessità labirintica: il contrappunto.

 

Francesco Filidei è nato a Pisa nel 1973. Si è diplomato al Conservatorio Luigi Cherubini di Firenze e al Conservatoire National Supérieur de Musique et de Danse di Parigi. Organista e compositore, le sue opere sono state eseguite in sedi quali la Philharmonie di Berlino, Colonia, Essen, Amburgo, la Cité de la Musique di Parigi, la Suntory Hall e il Teatro dell’Opera di Tokyo, il Theaterhaus di Vienna, la Herkulessaal di Monaco, l’Auditorium Parco della Musica di Roma e il Teatro alla Scala di Milano. Tra i riconoscimenti ottenuti figurano il Salzburg Music Förderpreisträger, l’International Rostrum of Composers UNESCO Picasso-Miro Medal, il Premio Abbiati e il Grand Prix Antoine Livio. In ambito operistico, ha composto Giordano Bruno (2015), L’inondation (2019) e Il nome della rosa, tratta dal romanzo di Umberto Eco e presentata in prima mondiale al Teatro alla Scala nel 2025. 

 

Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, tre volte l’anno, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. In questo ottavo numero, la rivista riflette sul Medioevo come costruzione culturale a partire da Lohengrin di Wagner. 

 

Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma. 

 

Le illustrazioni interne di questo numero e la copertina sono di Iride Scent.