Salomè attraverso lo schermo

di Dominic Pettman

Traduzione a cura di Valentina Rapetti 

Il seguente saggio è pubblicato integralmente da Calibano #3 – Salome / Proibito 

Le vediamo danzare sui nostri schermi come vivaci folletti digitali, oppure dimenarsi in pubblico. Sistemano il telefono su un tavolo da picnic o su una panchina e si esibiscono, da sole, per lo schermo. Sono le lontanissime discendenti di Salomè, che eseguono le loro coreografie su TikTok non più per Erode, ma per catturare l’agognata attenzione dell’onnipotente Algoritmo. Salomè si è esibita per la prima volta nella famigerata danza dei sette veli nell’opera teatrale di Oscar Wilde, il cui debutto parigino del 1896 fu seguìto a breve distanza dall’adattamento operistico di Richard Strauss, datato 1905. E in un certo senso continua a danzare anche oggi, attraverso i corpi irrequieti di milioni di giovani donne che fanno la scelta, offerta loro in eterno dal patriarcato, di usare il proprio corpo per sperimentare la forza dell’esibizionismo e il potere della seduzione: Wilde, quando aggiunse al testo la semplice didascalia “Salomè esegue la danza dei sette veli”, non poteva certo immaginare quante donne l’avrebbero imitata, spogliandosi esattamente come lei. Non che la danza sensuale fosse una novità, all’inizio del Ventesimo secolo: da quando hanno capito che l’oscillazione dei fianchi ha lo stesso potere ipnotico di un pendolo o di un orologio da tasca, esseri umani più o meno attraenti hanno tentato di carpire lo sguardo altrui usando parti del corpo come armi di seduzione. Tuttavia, la rivisitazione della figura di Salomè proposta da Wilde e Strauss diede vita a un nuovo archetipo, in grado di suscitare effetti sensazionali nell’immaginario popolare dell’epoca.

Dopo il trionfo della prima dell’opera di Strauss (gli interpreti uscirono sul palco per gli applausi non meno di trentotto volte), in tutta l’Europa occidentale si diffuse la ‘Salomania’. Ogni nazione, o meglio, ogni città del continente aveva la sua Salomè. Il critico letterario Mario Praz, nel suo ormai classico saggio La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, racconta che l’attrice italiana Lyda Borelli attirava ogni sera lo sguardo di centinaia di “cannocchiali maschili [puntati] sulla diva dagli occhi strambi vestita solo di fasci delle luci violette e verde assenzio dei riflettori”. Ben presto la mania di Salomè si diffuse anche oltreoceano, fino agli Stati Uniti, dove persino una giovanissima aspirante ballerina non del tutto sbocciata poteva prendere lezioni in scuole di danza concepite appositamente per il mercato dei sette veli: di queste istituzioni opportuniste, almeno una certificava mensilmente circa centocinquanta Salomè al mese, per poi liberarle nell’ecosistema dell’intrattenimento serale.

La volitiva principessa giudaica immaginata da Wilde simboleggiava spinte culturali opposte, e apparentemente paradossali: moderna e al tempo stesso antica, poteva incarnarsi in un’icona del cinema espressionista d’avanguardia come Alla Nazimova senza smettere di richiamare le nebulose origini bibliche. Era sofisticata, ma anche kitsch. Si muoveva con grazia sui grandi palcoscenici dell’Impero ma volteggiava con voluttà popolare anche sui tavoli sporchi di birra delle sale di varietà e dei locali di burlesque. Era un’icona femminista, ma anche una fantasia patriarcale, e sapeva rivolgere il malizioso sguardo maschile contro sé stesso, e far perdere la testa agli uomini, seppure in senso figurato.

In breve, c’era e c’è ancora qualcosa di intramontabile in questa femme fatale allo stato puro: un’eterna giovane donna perennemente sul punto di rivelare una verità importante, ancorché enigmatica, sulla lussuria, lo spettacolo, la morte, il desiderio e la trasgressione. Tuttavia, essendo uno dei personaggi più potenti del repertorio, soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione della lussuria femminile, è bene ricordare che oggi Salomè danza per un pubblico diverso, con aspettative, punti di vista e valori decisamente distanti da quelli di cento anni fa. E questa differenza diventa forse più lampante rispetto al tema del sesso, della promessa e della minaccia che questo rappresenta. Nel mio ultimo libro Ecologia erotica. Sesso, libido e collasso del desiderio cerco di dare un senso alla narrazione dominante dei nostri tempi secondo cui noi, abitanti del Ventunesimo secolo, non abbiamo più interesse verso le questioni che riguardano il sesso.

Nonostante il nostro universo mediatico sia saturo di immagini conturbanti, non mancano infatti notizie allarmistiche sul crollo dei tassi di natalità e della libido, sul risentimento degli incel, sull’eccessivo pudore degli adolescenti e persino sul desiderio crescente di un ‘futuro post-sessuale’. Molti studiosi ritengono che stiamo vivendo un’epoca decisamente ‘desiderofobica’, in cui desiderare apertamente un altro essere umano è percepito come l’apice del cringe, per usare un termine sempre più diffuso. La scrittrice e critica R. S. Benedict sintetizza in modo efficace lo spirito dei tempi con il titolo di un articolo sul cinema hollywoodiano contemporaneo, diventato virale: Everyone is beautiful and no one is horny, ‘tutte persone bellissime e neanche una arrapata’.

L’ispirazione principale per il mio libro mi è stata fornita dal filosofo francese Bernard Stiegler (purtroppo non più tra noi), secondo il quale la nostra specie, oltre al petrolio e ad altre risorse essenziali, sta esaurendo anche la libido. Può sembrare una teoria bizzarra, se si considerano la popolarità di Pornhub e l’ubiquità di immagini thirst trap su Instagram; tuttavia Stiegler operava una distinzione importante tra il desiderio autentico – una forma di attrazione libera e protratta nel tempo, che implica un profondo interesse per il benessere della persona desiderata – e la semplice pulsione, vale a dire una risposta più fugace, automatica e pavloviana agli stimoli che spesso riceviamo sotto forma di pixel nel grande contenitore dello Spettacolo sessualizzato. In sintesi, la libido ha talmente tanto a che fare con la vita che, come sosteneva Freud, è di fatto la nostra forza vitale. La mera lussuria, invece, non è affatto erotica, poiché segue esattamente lo stesso ciclo di tensione e rilascio che caratterizza l’attività sessuale degli animali. Secondo questa prospettiva, possiamo anche provare eccitazione di tanto in tanto – se riusciamo a strappare un simile lusso alle nostre vite estenuanti e alienanti – ma si tratta dello stesso tipo di desiderio che ci capita di nutrire per il cibo spazzatura: vuoto e inappagante, una componente della Macchina Autolubrificante e Pseudogratificante Istantanea, in poche parole la vita moderna.

La brama di Erode per Salomè – sua nipote e figliastra – non si può ovviamente definire in tutta serenità la manifestazione di un desiderio autentico, e tuttavia fa parte di una complessa economia libidica che include anche l’attrazione genuina, ancorché monomaniacale, che Salomè prova nei confronti di Giovanni Battista. In alcune versioni della storia Salomè non viene rappresentata come una vendicativa mantide religiosa, bensì come un’adolescente ferita, che risponde in modo eccessivo e terribile, eppure autentico, al profondo dolore che prova per il rifiuto sessuale che ha ricevuto. Eppure, comunque s’interpreti la storia o si giudichi il personaggio che le dà il titolo, che si dipinga Salomè come immorale o amorale, immagino che le persone sedicenti ‘aromantiche’ o ‘sessualmente negative’ che appartengono alla generazione Z faticherebbero a comprendere l’agone appassionato che costituisce il nucleo della storia, laddove invece i boomers, vittime della nostalgia per le atmosfere esotiche da fin-de-siècle, non solo trovavano affascinante la Principessa di Galilea, ma arrivavano persino a identificarsi con lei.

Per esempio, l’ex danzatrice Toni Bentley, che aveva studiato danza con il neoclassicista e rigorosissimo George Balanchine, divenne famosa negli anni Ottanta, quando passò dai raffinati teatri cosmopoliti alle sudice atmosfere degli strip club. Nel suo libro Sisters of Salomè, Bentley sostiene che la creatura di Wilde e Strauss sia la progenitrice dello striptease moderno, una sensuale assassina la cui eredità conduce a figure di grande fama come Maud Allan, Mata Hari e Colette. La stessa danzatrice si colloca in questa genealogia sensuale e descrive il brivido intenso e viscerale che provò spogliandosi per la prima volta davanti a un anonimo gruppo di sconosciuti in uno squallido nudie show nel centro di Manhattan. “Distesi il corpo, mi alzai e uscii con cautela dalla pozza di morbido velluto su cui poggiavano i miei piedi. Mi diressi lentamente verso l’estremità di quel palcoscenico minuscolo e, immersa nella luce dei riflettori, con la schiena inarcata, il busto e il viso protesi in avanti, le mani rivolte verso l’alto, pensai alla Nike di Samotracia. Ero nuda – come Dio e Balanchine mi avevano plasmata – davanti a cinquanta sconosciuti paganti”. In preda a un’estasi da esibizionismo, questa Salomè postmoderna incrocia lo sguardo di uno spettatore.

“Mai, in tutta la mia vita, avevo visto un’attenzione simile. I suoi occhi si abbassarono sui miei seni e sul mio ventre e poi tornarono a specchiarsi nei miei con un misto di timidezza, vergogna ed eccitazione. Il suo desiderio ardeva nel mio sguardo, mostrandomi con una chiarezza che non avevo mai visto prima il potere del mio corpo. Capii la sensazione del trionfo. In quel momento, quell’uomo sconosciuto, che rappresentava tutto l’universo maschile, era completamente mio”.

In netto contrasto con quel rigoroso, apollineo addestramento che le aveva insegnato a non essere altro che una graziosa rotella nell’ingranaggio coreutico di Balanchine, Bentley s’inebriò del proprio potere dionisiaco; catturò l’attenzione di dozzine di peccatori e peccatrici e forse anche di qualche santo caduto, e la concentrò completamente su di sé: l’apice del successo, per una donna eterosessuale cresciuta in una cultura che loda il potere erotico più di ogni altra cosa. La narrazione contemporanea del genere e della sessualità tende a essere dicotomica. Le donne che manifestano apertamente la propria sessualità vengono dipinte come vittime inconsapevoli del patriarcato oppure come modelli di emancipazione femminile. Anche gli uomini, ovviamente, possono spogliarsi, come dimostrano la rinnovata attenzione per il fenomeno di spogliarellisti come i Chippendales o altre celebri versioni al maschile di Salomè. La distinzione, così nettamente codificata in passato, tra ‘uomini’ e ‘donne’ inizia a essere contestata, e questo ovviamente complica la cosiddetta ‘battaglia dei sessi’ che per tanto tempo ha alimentato la maggior parte delle narrazioni popolari, basate tanto spesso sugli intrighi sessuali. Ad ogni modo, il modello per la Salomè wildiana è probabilmente stato un uomo giovane e bellissimo, forse Lord Alfred Douglas, così come alcune commedie shakespeariane basate sullo scambio d’identità venivano interpretate da uomini vestiti da donne che fingevano di essere uomini, in una mise en abîme che scatenava confusione tra i generi, come una vertigine sessuale. In tempi più recenti, nel 1975, il coreografo e danzatore Lindsay Kemp ha messo in scena per Broadway una Salomè tutta al maschile; in un’intervista, lo stesso Kemp aveva dichiarato: “Ho danzato Salomè per la prima volta a scuola, completamente nudo tranne che per la carta igienica”. Tuttavia, al di là degli slittamenti di sesso e di genere, la parola più importante che emerge dalle memorie erotiche di Bentley, almeno per me, è ‘attenzione’. “Mai, in tutta la mia vita, avevo visto un’attenzione simile”, scrive la danzatrice, eppure si tratta di una persona che ha vissuto e lavorato sui più celebri palcoscenici della sua epoca.

L’attenzione erotica è paragonabile a un laser: ha il potere di bruciare le cose, comprese le retine degli occhi intenti a guardare. Wilde e Strauss non ci danno accesso ai pensieri o ai sentimenti che attraversano Salomè mentre danza per il perverso zio-patrigno con la madre che la osserva accigliata, tuttavia ci è facile pensare che Salomè si spogli volentieri e con un certo entusiasmo, abbastanza da compiacere Erode e da spingerlo a prometterle incautamente tutto ciò che desidera in cambio del piacere che lei riesce a dargli.

L’attenzione è un’altra risorsa umana che sta diminuendo e che rischia di esaurirsi: può in questo caso davvero essere considerata un sinonimo imperfetto della libido, laddove nell’epoca degli smartphone e dei social media passiamo da un feed all’altro, da un dispositivo all’altro e da una distrazione all’altra come criceti troppo cresciuti che corrono in una ruota. L’idea di guardare uno spogliarello di circa otto minuti, in un mondo dove si può accelerare la riproduzione a 4x, somiglia all’eternità. Sette veli sono troppi, troppi strati tra l’interesse iniziale e il colpo di scena: come è noto, persino Strauss si limitò a scrivere istruzioni per la danza di Salomè fino al quinto velo. La maggior parte dei video su TikTok è progettata appositamente per catturare l’attenzione nella marea infinita di opzioni che ci scorrono sotto gli occhi. Se una Salomè contemporanea, magari vestita come un personaggio di un anime di successo, riesce a mantenere l’attenzione di un utente medio per più di dieci secondi, significa che ha ottenuto più successo della maggior parte delle sue simili.

Viene da chiedersi se Bentley, o Salomè stessa, sarebbero soddisfatte di danzare per l’occhio della telecamera piuttosto che per quello umano: probabilmente no. Oltre al già tristemente noto male gaze, oggi ne esiste uno più pervasivo, mediato dalla tecnologia e da tutte le forme di acquisizione di dati che essa consente. Ogni inclinazione dell’anca, torsione del collo e piegamento del polso viene mappato, registrato e isolato affinché gli avatar creati dall’intelligenza artificiale consentano di far migrare la provocazione in carne e ossa di Salomè da ciò che resta del mondo reale al più programmabile regno virtuale. Salomè, un seducente cartone animato: curioso come tra i termini di ricerca più utilizzati dalla generazione Z sui siti pornografici abbondino quelli legati ai cartoni animati. Il supporto d’argento su cui fu adagiata la macabra ricompensa di Salomè è stato sostituito dal supporto immacolato dell’iPhone. E la raccapricciante testa mozzata di Giovanni Battista è stata sostituita da sterili e immateriali ricevute di pagamenti digitali.

Possiamo solo immaginare cosa avrebbero pensato Wilde e Strauss di questa frattalizzazione virale del loro iconico personaggio. L’originale bellezza di Salomè si è frantumata in quello che la critica culturale Alex Quicho chiama “lo sciame delle ragazze”, una forma di contagio tardocapitalista e femminilizzata che infetta tutti e tutte, indipendentemente dal genere nel quale ci identifichiamo. Come afferma Quicho, la ragazza non è più una contegnosa cittadina di seconda classe, bensì “una specifica tecnologia della soggettività che fa leva sul desiderio, sull’attrazione, sulla replicabilità e sull’astuzia per raggiungere fini specifici”. Indubbiamente c’è una forza queer che emerge da queste nuove iterazioni della femminilità; una forza che condivide i desideri conflittuali, gli sguardi incrociati e le trasgressioni che s’intrecciano nella storia originale. La logica erotica della storia di Wilde richiede un sacrificio affinché l’ordine moralistico non crolli. Nel suo testo teatrale e nell’opera di Strauss Salomè viene uccisa su ordine di Erode per aver commesso il crimine di chiedere la testa del profeta. Nella meno nota versione di Florent Schmitt, La tragédie de Salomè, andata in scena solo pochi anni dopo l’opera di Strauss, l’intero palazzo crolla sotto un diluvio apocalittico, potente quanto il delitto della donna: ricordiamo che la parola ‘apocalisse’ significa originariamente ‘svelamento’, messa in luce della nuda verità, e in quanto tale è intimamente legata alla logica metaforica dello spogliarello.

In un noto intervento sullo striptease, Roland Barthes sottolinea il paradosso insito nel rituale dello spogliarsi in pubblico, vale a dire il fatto che la donna viene desessualizzata nel momento stesso in cui viene denudata. Ciò che Barthes intende suggerire è che i veli di Salomè non sono un mero accessorio della sua performance, bensì l’aspetto più importante. La promessa che celano conta di più del suo svelamento: come è stato sottolineato da più parti, la nudità è nemica dell’erotismo, e infatti non c’è nulla di meno sensuale di una colonia di nudisti. Tuttavia, come ho già accennato, lo scrollatore medio, alla costante ricerca di un appagamento visivo, sente di non avere più il tempo o la pazienza per sentirsi tentato. C’è quindi qualcosa di osceno e controproducente in questa smania di raggiungere rapidamente l’obbiettivo, la mera visione di un corpo che dovrebbe rimanere nascosto alla vista o essere costantemente fuori dalla nostra portata. Oggi, in rete, le immagini di corpi nudi non sono mai a più di due clic di distanza, per chiunque abbia bisogno di una dose al volo. Ma si tratta di corpi casuali, sconosciuti, impersonali, inodori, intoccabili, bidimensionali: manca il brivido della presenza. Non c’è alcun incontro o scambio concreto. La danzatrice sullo schermo può guardare nella tua direzione, ma non può vederti. E non c’è simulazione che possa riprodurre le implicazioni dello svelarsi in un tempo reale, in un luogo reale, di fronte a una persona reale. In effetti, le implicazioni di un’esperienza simile possono sembrare infinite, e forse lo sono.

Una danza seducente evoca il miracolo indicibile dell’esistenza, placando al tempo stesso il senso di smarrimento che essa genera in ogni essere umano: l’essere precipitati in un mondo e in un corpo e avere la sensazione che nessuno dei due ci appartenga veramente. Mostrare la propria vulnerabilità senza vergogna, o con una forma di vergogna giocosa, civettuola e consapevole, può essere un gesto sacro in un mondo profano. L’affermazione di qualcosa di fugace, ma bello. Ecco perché Strauss insistette affinché la danza dei sette veli fosse eseguita “come su un tappeto da preghiera”, facendo di Salomè una Madonna ante litteram.

Resta il fatto che nell’epoca di Zoom e degli zoomers, e vista la persistente agorafobia legata ai traumi della pandemia e del lockdown, le ‘sorelle di Salomè’ dei giorni nostri continueranno inevitabilmente a essere osservate online, attraverso lo schermo. Del resto, i discendenti detronizzati di Erode attualmente sono più propensi a cliccare sulla categoria ‘figliastra’ del loro sito porno preferito, o ad accedere a Onlyfans piuttosto che andare al più vicino strip club e sperare che il feticcio giusto salga sul palco. Ed è ancora meno probabile che si mettano in cerca di una nuova produzione dell’opera di Strauss. Eppure, se si sforzassero di farlo potrebbero riconnettersi alla propria libido in un modo che va oltre la volontà di possesso e che apre un orizzonte più ampio di possibilità e intrecci. Se lo facessero, potrebbero esperire l’originale incantesimo drammatico wildeiano, un incantesimo che ha trasformato una sordida storia di lussuria e omicidio in un lungo mantra su quel complesso e contraddittorio campo di forze collettivo che è il desiderio.

Dominic Pettman insegna Media e New Humanities alla New School University di New York, dopo aver lavorato presso le università di Melbourne, Ginevra e Amsterdam. La sua originale riflessione intreccia diversi filoni di ricerca, dalla teoria dei nuovi media all’ecologia dell’attenzione, dalle filosofie del desiderio agli studi sugli animali. In Italia ha pubblicato Ecologia erotica. Sesso, libido e collasso del desiderio, Tlon 2023.

Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. In questo terzo numero, la rivista riflette sul tema del proibito a partire dalla figura di Salome, protagonista dell’omonima opera di Richard Strauss. 

Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma. 

Le illustrazioni interne di questo numero sono di Emilia Trevisani.